lunedì 2 maggio 2011

Nonsocomio - Reparto medicina d'urgenza

Ei piccolo...
ho saputo che hai fatto un brutto incidente,
fammi sapere come stai...
ti penso...
Sono appena arrivata a Lecce...
che bellooo...
sono carichissima!
Guarisciprestotesorobello



Un incidente visto da nessuno
Sono uscito da pochi minuti dalla stazione di Bologna con la valigia in spalla.
L'aria è irreale.
Poco prima di casa trovo la strada chiusa per lavori così decido di fare il giro più lungo per non passare sull'asfalto fumante ancora molliccio.
Attraverso l'incrocio.
Sono circa le quattro del pomeriggio.
Il traffico è sostenuto nonostante sia agosto. I viaggiatori, affaticati dal caldo, dal lavoro, corrono frenetici nella speranza di raggiungere un posto al fresco dove parcheggiarsi.
Non mi vedono.
Per la fretta la macchina più vicina accelera.
Non c'è tempo per nessuna considerazione, vengo travolto, sbalzato sopra il cofa...
No...
Non è la fine di tutto...
Mi sveglio dopo non so quanto in una stanza d'ospedale. Una solerte neurochirurga dall'accento senese mi sta mettendo cinque punti sul cranio fratturato.
Non dico una parola, non mostro alcuna emozione.
La rincontrerò solo sette giorni dopo per togliere i punti poco prima di uscire.
In ogni caso trauma cranico grave.
Sono ricoverato nel reparto di medicina d'urgenza dell'ospedale Maggiore, una zona di confine tra la vita e la morte. Un luogo estremo dove si rimettono in sesto cadaveri ambulanti per dare loro nuova linfa vitale, un ulteriore posto all'interno della società.
Superato lo choc iniziale la maggior parte pensa di tornare alla routine di sempre. Si vorrebbe dimenticare tutto velocemente facendo finta non sia successo niente. L'importante è uscire più in fretta possibile, mettere tacitamente tutto dietro le spalle considerando l'accaduto un colpo basso del Fato. Tanto basta per scambiare illusoriamente un'agonia prolungata per una improbabile salvezza.
Durante il ricovero incontro aristocratici cavallerizzi disarcionati, rapper in erba intossicati, studenti investiti, imprenditori, mamme confuse in pena per la sorte dei figli, pensionati rassegnati. Ognuno preoccupato con tutto se stesso a capovolgere il comune destino.
Alla fine volenti o nolenti si è tutti risucchiati nello stesso cammino. Le esperienze si sovrappongono. Da bravi sopravvissuti si prova a prendersi amorevolmente cura l'uno dell'altro, a intrattenere fraternamente conversazioni prima inconcepibili, a sostenersi nel momento del bisogno.
Per carità, il tutto dura giusto il tempo di rimettersi.
Lo so già, non mi aspetto nulla di più.
Intanto si condividono intensamente le emozioni anche per capire cosa sia successo.
Eppure vivo uno scarto.
Una volta uscito la mia condizione di paziente non cambierà. Non sarò certo sanato dai mali, dai problemi.
In un certo senso mi sento a casa.
Qui ci si confronta con la cruda realtà, la vita senza fronzoli, finzioni, falsità. O si sta dentro o fuori, o si vive o si muore senza ulteriori compromessi.
Anche quando prevale la vita, spesso sopravvivere significa essere condannati a scenari normalmente improponibili per chiunque. In questi casi la morte non è vista come una nemica da evitare a tutti i costi o da seppellire nel profondo.
Alla fine si balla in continuazione. Le emozioni sono sempre al massimo, così pure l'adrenalina. Quando si gioca ogni chance senza appello non c'è tempo di annoiarsi. La mente gira sempre a mille. Qualsiasi direzione prenda il pensiero non si pongono barriere. Tutto diventa possibile, plausibile. Anche fare incontri sentimentali. Si sa, la vita non sembra potersi arrestare di fronte a nulla.


Una flebo lentissima
Si è fatta sera.
Lungo il corridoio spoglio appaiono le prime ombre.
Mentre cammino radente la parete per raggiungere un compromesso meno ostile con il tempo, nella penombra appare il corpo slanciato di una ragazza poggiata sullo stipite della porta. Aspetta malinconica come Lili Marleen rediviva sotto un lampione fulminato.
La riconosco.
È la rumena incontrata il giorno precedente.
Ha jeans attillati, una camicetta estiva scollata quanto basta per mettere in risalto le sottili braccia abbronzate.
A balzare agli occhi sono le vistose scarpette rosse con i tacchi alti senza esagerare.
Annunciata dall'incedere ritmico dei passi, quando transita lei tutti si voltano. Per un attimo vengono appesi i rispettivi ruoli si tratti di infermieri, pazienti, dottori. Per una frazione di secondo si lascia posto solo alla fantasia.
Anch'io alla pari degli altri vengo attratto irresistibilmente dai lunghi capelli castani mossi e non solo... Neanche fosse una sirena di Ulisse.
Mi sente arrivare.
Mi ignora.
Dopo la piacevole conversazione di ieri, oggi fa la difficile.
Messe a freno le emozioni, pian piano emergono quegli aspetti solitamente trascurati. Lo sguardo un po' malato, un sorriso amaro velato di cinismo nonostante faccia di tutto per essere compiacente.
Sta provando a nascondere il malessere senza riuscirci.
Gli occhi spenti non riescono a dissimulare un'espressione persa nel nulla.
Seviziata dalla vita ha uno sguardo sfocato, disilluso. Non si aspetta più nulla di buono.
In questo reparto fa la badante.
Nel primo letto sulla sinistra della stanza adiacente la mia c'è l'anziano designatogli dal destino. Non è messo per niente bene. Il fiato gli fuoriesce a malapena dai polmoni logori, lo sguardo fisso è rivolto verso l'alto. Sta provando a convincere l'altissimo a accorciargli l'interminabile agonia.
La saluto.
Anche lei fa altrettanto, ma non ricambia lo sguardo impegnato a inseguire chissà quale mattonella.
Le chiedo come sta.
Non c'è male.
Visto che non mollo accenna un sorriso di convenienza.
Dal letto si alza un gemito rantoloso.
Senza troppa fretta scosta dalla parete il corpo sinuoso, la meta agognata di mezzo reparto. Ondeggiando leggermente sui tacchi raggiunge con poche falcate il letto del malato ad ore. Gli dice di stare calmo, poi si rivolge a me con un ottimo italiano.
La flebo non vuole saperne di andare giù.
Analizzo in un baleno la situazione.
Il braccio è troppo alto, impedisce al liquido di scendere. Bisogna abbassarlo.
Il malato non vuole saperne, è in preda a spasmi difficilmente controllabili.
Alla fine si riesce a trovare la posizione giusta. Copiosamente cominciano a scendere le gocce con una cadenza costante quasi a scandire il conteggio alla rovescia prima della fine quando si punterà la prua per un ultimo misterioso viaggio.
Hai visto, ora funziona, gli dice con un tono affatto amorevole.
Se non stai fermo con il braccio te lo spezzo.
Dovrebbe essere una battuta però nessuno ride.
Guardo in volto il moribondo.
Si tratta di un signore non troppo anziano. Ha ancora un fisico imponente all'apparenza in buona forma.
Provo a sorridergli.
Lo incito a avere coraggio stringendo forte i pugni.
Mi vede.
Non pronuncia nulla, accenna solo una leggera smorfia.
La parola coraggio non sembra avere più alcun significato. Aspetta solo di farla finita prima possibile.
Ci congediamo gentilmente con un filo di voce.
Poggiati con le spalle al muro rimaniamo ancora un po' l'uno accanto a l'altro senza dire nulla.
Per un attimo la stanza diventa meno gelida.
Poi ritorno mestamente verso le mie stanze senza proferire una parola fissando il pavimento.
Non ho voglio di incrociare lo sguardo di nessuno.
Per questa sera buonanotte a tutti.


Buongiooornooo.... come sta?
Anche oggi la visita mattutina va avanti secondo i normali cliché. Ogni cosa è studiata alla perfezione per ottenere il miglior approccio possibile.
L'arrivo del carrello preannuncia l'inizio delle cerimonie. I parenti sono gentilmente invitati a uscire, vengono accese le luci, chiuse le porte. Tutto diventa asettico, irreale. Sembra di entrare all'interno della navicella di “2001 odissea nello spazio”.
I medici avvolti dalla luce diffusa dei faretti sembrano delle entità marziane. Il loro rigore contrasta con la realtà circostante a cominciare dai miei vicini abbastanza malconci. Spesso hanno i panni insanguinati, cateteri trasparenti fissati al letto, flebo interminabili quasi si dispensasse la vita con il contagocce. La notte si consuma tra rantoli, lamenti, colpi di tosse disumani, rumori corporei incontenibili lasciati andare senza alcuna forma di resistenza.
No, non si tratta del paradiso.
Poi arrivano loro, vestiti di bianco, lindi, pettinati, la pelle curata, profumata, sembrano gli alieni di “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. Da loro ci si aspetta chissà quale miracolo, una buona novella. Allo stesso tempo si spera non siano gli inquietanti extraterrestri di “Indipendence day” venuti per guastare un equilibrio precario raggiunto non senza difficoltà nell'arco di una notte insonne.
A quali girone infernale si sarà indirizzati?
Una tac, una flebo...
Quale altra sorpresa ci si può aspettare?
Magari si potrebbe passare.
Andrebbe anche bene un chip.
Un giro al buio...
Ma niente rilanci per favore.
A volte i pazienti sono moribondi, silenziosi, disorientati, bisognosi di tutto. Soprattutto di comprensione, di un affetto smisurato, disumano.
I nostri eroi da bravi genitori giocherelloni provano a accudire i malati soli davanti a un nemico invisibile smisuratamente più forte. Stressati dalla paura, possono incarnare le stesse forme di disagio psichico patite dalle vittime dei campi di concentramento.
Spesso l'unica via percorribile è la regressione sino alle fasi neonatali, uterine. Così ci si affida ciecamente a chi si ha di fronte, fosse anche il proprio aguzzino. Oramai non fa più differenza.
I casi più disperati non sono quando ci si lamenta in continuazione ma quando si perde ogni speranza. Allora ci si abbandona completamente stando immobili come cadaveri preannunciati. Fosse concesso si sferrerebbe senza esitazione il colpo definitivo, brandendo con decisione la falce della signora morte troppo svogliata e indifferente. Tuttavia non hanno più forza per nulla. Vegetano e basta.
Come va il nostro paziente?
Oggi tutto bene?
Ha fatto il bravo questa notte?
Ogni frase viene ripetuta come una filastrocca. Con rapidi sguardi il direttore d'orchestra comunica con gli infermieri lì accanto. Basta un battito di ciglia e si attivano. Oramai conoscono a menadito il mestiere, sono un po' medici anche loro. Promossi sul campo. Ne hanno viste troppe. Tuttavia riescono ancora a mostrare un sorriso, a esprimere un vitalismo inaspettato. Fanno pure battute simpatiche senza smettere di essere vigili, pronti per ogni evenienza.
Molti sono entrati nel corpo degli infermieri per lavorare. Per altri è una missione. Vogliono portare un po' di sole dove non cresce più nulla, dove si è smarrito il senso.
Entrambe le categorie hanno sviluppano la medesima abilità di gestione, la stessa capacità decisionale. Difficilmente si lasciano coinvolgere emotivamente dal paziente. Piuttosto tendono a dissociarsene. Aggiungere ulteriori categorie esistenziali li renderebbero ai loro occhi “umani, troppo umani”. Potrebbero correre il rischio di attivare un sovraccarico emotivo inopportuno.
Fatti dello stesso stampo devono essere senza qualità, da chiamare rigorosamente con il cognome. Un numero andrebbe bene lo stesso. Ne va dell'intero sistema. Uno sbaglio a questi livelli potrebbe essere fatale.
La visita prosegue il suo rituale.
Oggi gli occhi sono un tantino più vispi.
Dall'altra parte della barricata non si batte ciglio.
Di solito ci si limita a brevi risposte telegrafiche:
Si.
No.
Non so.
Ha mangiato ieri sera?
Dopo dieci secondi si sente rispondere con un debole:
Si.
Come sta il suo stomaco?
Apra la bocca....
Ahhhhh
Bene bene....
La testa come va?
Mmmhhhhh
Ha mal di testa?
Eh?
Allora il medico più forte:
HA MAL DI TESTAAAA?
Dopo un quarto d'ora:
Si.
TAC.
L'infermiere è già con il telefono in mano.
Me lo prendete un paziente con trauma grave per questa mattina?
Come non se ne parla? E se ci metto la figurina di Maradona autografata, la crostata di marmellata fatta dalla nonna?
Niente da fare.
Senza mutare espressione, il dottore prende la cornetta. Chiede gentilmente ma con decisione di poter parlare con il primario.
Ciao caro.
Questa mattina te ne mando un altro.
È urgente.
Non ci sono problemi vero.
No?
Ah grazie.
A dopo.
Poi verso gli infermieri:
TAC, tachipirina.
Dopo un'eternità arrivano dalle mie parti. Il letto è vuoto. Sopra c'è un libro a vegliare sul cuscino.
Questa mattina ho avuto difficoltà a concentrarmi. Non riuscivo a leggere per più di mezz'ora così sono andato in giro per scoprire quale turno di infermieri il destino ci ha assegnato. Ne può andare dell'andamento di buona parte della giornata. Cominciare con la battuta giusta, uno sguardo accogliente, benevolo risulta d'importanza vitale. Ci saranno quelli più simpatici o quelli seri, irraggiungibili?
D'improvviso sento una voce familiare.
Ei, ma sei ancora in giro?
Lascia perdere la badante rumena...
È sposata.
C'ha pure un figlio.
Sorrido.
Per un secondo sospendo la condizione di degente. Mi sento fuori quasi si fosse tutti della stessa famigliola senza distinzioni tra chi è sano o infermo.
Riconosco quella voce dialettale. Mi volto di scatto, replico:
È per passare un po' di tempo.
Ha qualcosa di malato. Mi attira.
Pure a me.
Dov'è Michelangeli...
Dove s'è nascosto...
C'è la visita.....
Sento un sobbalzo interiore...
Chi sarà oggi?
Si comincia bene...
Entro in camera spedito, felice, ma trovo solo il medico con il suo entourage. È accompagnato dall'immancabile carrello stracolmo di flebo, punture, telefono portatile. Per imponenza ricorda un carro medievale.
Deluso, li precedo.
Ah... siete voi!
Mi aspettavo ben altra visita.
Li ho spiazzati. Non sono abituati a essere sotto esame. Di solito sono loro a fare domande, a intavolare quale conversazione intrattenere. I tratti da nursery accudente si dileguano dal volto del medico.
Vedo che sta bene.
Mi dice con tono interdetto.
Senza esitare rispondo di sì.
Per quanto mi riguarda potrei starmene anche a casa. Anzi è come se lo fossi. In fondo non conduco una vita tanto differente, solo non devo cucinare, lavare i piatti.
Lei ha subito uno choc, stia attento, non esageri.
Allunga lo sguardo sopra il letto, vede il libro, legge il titolo. Un testo non facile almeno per chi ha subito un trauma.
Quel libro non dovrebbe stare lì, punto e basta. Provi a riposare per favore.
Ho ripreso a leggere, a scrivere già dal giorno dopo il ricovero. Un poco più in là, davanti alla finestra, c'è pure il computer aperto. È poggiato sopra il tavolo mobile utilizzato per mangiare. Da lì si vede San Luca, manco fossi in Hotel.
Questa mattina ho cominciato a scrivere dell'incidente. L'idea è di concluderci il libro su cui sto lavorando. La ciliegina sulla torta che non ti aspetti. Per carità, tutto senza eccedere, anche perché dopo poco i pensieri vanno per i fatti loro. Allora mi fermo per riprendere con calma più tardi. Tanto tempo c'è né in abbondanza.
Rispondo di non avere troppe difficoltà nel leggere, nello scrivere. Indico la postazione mobile di lavoro.
Non ho grossi deficit né eccessivi mal di testa. Solo quando parlo o sto concentrato sento i lobi frontali appesantirsi. Sintomo di uno sforzo anormale.
Non si preoccupi, è normale.
Il suo cervello ha subito un trauma grave.
In questo momento è in uno stato caotico.
Mi riprenderò del tutto?
Nulla di irreversibile vero?
Beh...
Vede...
Il cervello è dotato di una normale...
Si ferma per trovare la parola giusta.
Provo a passargli sotto banco la parola “plasticità”.
Non lo convince.
Continua a stare in silenzio.
Poi sentenzia:
Reattività.
Allora c'è speranza.
Replico ironicamente.
Annuiscono.
Senza aggiungere altro si congedano. Di colpo riaffiora magicamente il sorriso beota.
Avanti con il prossimo!
Siore e siori si riparte per un nuovo giro...


Mangia, mangia che devi crescere...
Anche stamattina sono a zonzo.
Al mio fianco c'è una simpatica infermiera.
Sotto la sua guida percorriamo i passaggi segreti dell'ospedale, quelli interdetti al pubblico. In un baleno arriviamo a destinazione.
Per cambiare oggi eseguo la quarta TAC...
TAC
TAC
TAC
TAC
Messe di fila potrebbero sembrare il battito vitale di un orologio a pendolo.
Vengo disteso all'interno di un macchinario rotondo del diametro di poco meno di due metri.
Rimango immobile.
La ruota illuminata di mille spie lampeggianti comincia a girare lentamente intorno al capo. Sembra di essere il centro di una costellazione planetaria. Il corpo viene spostato in avanti poi indietro. A questo punto termine la seduta. Con celerità si viene parcheggiati fuori in sala d'aspetto.
Avanti il prossimo...
Potrei tornare a casina da solo ma ho deciso di fare il bravo e di aspettare i rinforzi.
Normalmente si sale in sedia a rotelle ma visto il buono stato di salute sarebbe ridicolo.
Nell'attesa cammino su e giù per il corridoio solitamente straffollato provando a non lasciarmi coinvolgere dalla fretta delle persone presenti.
Dopo un po' arriva l'infermiera.
Vai... si riprende il viaggio di ritorno.
Al fianco del Virgilio di turno si risale i gironi infernali dell'ospedale. In questo momento si è nel livello più infimo, il pronto soccorso, il luogo d'entrata delle anime dannate. Sono traghettate dentro con lettini, sedie a rotelle per essere abbandonate all'interno di corridoi stipati di corpi distesi, avvolti nelle coperte. Sono vestite come nel mondo normale in attesa di essere denudate e abbigliate di panni più appropriati. Molte di loro non hanno afferrato il cambio di situazione. Si illudono ancora di stare dall'altra parte. Nonostante le ferite le vedi attaccate alle preoccupazioni di tutti i giorni, al telefonino come nulla fosse successo.
Ma non è sempre così.
Una marea di gente è in fermento. Parenti, malati, infermieri si accalcano come nelle viuzze intasate di Blade Runner. Solo non piove. Al massimo scende qualche lacrima sparsa qua e là.
Guardandosi attorno si può essere colpiti dal look di certi infermieri, i responsabili di questo girone infernale. Molti sono abbindati con mega anelli affusolati lungo le dita, pesantissimi braccialetti a mo' di catene ai polsi, alle caviglie.
Sono rimasto particolarmente impressionato dall'orologio spaziale di un inserviente della TAC. È immenso. Ha un cinturino di pelle di serpente marroncino chiaro tendente al grigio. Il tutto fa a cazzotti con la semplicità del proprietario.
Sfigurati da un trucco esagerato, da una maglietta strascollata, da un improbabile taglio di capelli, vogliono manifestare la loro presenza.
Ei sono qui!
Guardatemi.
Per emergere da quel casino multicolore si deve essere originali. Non sempre basta. Allora per non scomparire nel nulla si arriva a essere vistosi fino al parossismo. D'altra parte quando si sta in prima linea, continuamente visibili, esibire tali cimeli diventa un simbolo di distinzione, di potere, per mostrare agli altri, ancor più a sé stessi, di essere ancora integri, vitali.
Fortunatamente i pazienti hanno altre preoccupazioni. Così ci passano sopra.
Dopo tanto girovagare si torna incolumi al nostro girone infernale. O era il purgatorio? Non l'ho ancora capito.
Là trovo i genitori con Silvano, il marito della cugina Francesca.
Nonostante gli acciacchi della vecchiaia, la zia appena uscita dall'ospedale per un'operazione al retto, hanno deciso di salire comunque. Non è bastata la conversazione al telefono. Vogliono assicurarsi di persona delle condizioni del figlio infortunato.
Raccolte le poche forze disponibili si sono messi in viaggio ancora una volta. Che non c'è mai tregua. Hanno già perso la primogenita per strada. Non vogliono correre alti rischi.
Appena li vedo provo a persuaderli del buono stato di salute. Mi lancio di corsa lungo il corridoio esibendo una serie di salti mortali per cadere alla fine in ginocchio con le mani aperte sempre mostrando il sorriso.
Mi aspetto un applauso.
A convincerli però è la conformità ai loro parametri vitali. Respiro, mangio, non sono deperito. Tanto basta.
Il tempo di un abbraccio e via verso casa.
Dopo quindici minuti dall'incontro sono già andati non prima di un'ultima fondamentale esortazione:
Mangia e fa bembè...
Siguro...
La loro presenza è stato un evento inaspettato impensabile fino a pochi minuti prima. Il babbo erano anni che non saliva. Dall'ultima colica renale. Quando è stato ricoverato al pronto soccorso di questo stesso ospedale divenuto il nostro abituale luogo d'incontro a Bologna.


Jesus Christ Superstar
Dal primo giorno indosso un camice bianco legato dietro la schiena con tre file di lacci anch'essi bianchi. Arriva fino alle ginocchia. Quando cammino la fessura posteriore lascia trasparire la schiena, i boxer grigi melange, le chiappe sode.
Me lo sono trovato addosso fin da subito.
Appena sveglio ho pensato fosse giunta la mia ora, di essere in un girone celestiale.
Non ho nemmeno le classiche ciabatte lontane circa duecento chilometri. Così indosso delle comode scarpe da running. Le stesse con le quali sono arrivato.
I miei genitori, Emilio, il fido amico bolognese, hanno portato dei panni sostitutivi. Ognuno ha dato per scontato le proprie priorità. La mamma ha pensato all'intimo, ai fazzoletti di cotone, agli asciugamani da bidè. Emilio a qualche maglietta bianca. Non si è nemmeno dimenticato delle pantacalze elasticizzate in microfibra, quelle per andare a correre in inverno.
Rimango un po' perplesso su alcune scelte, così preferisco rimanere fedele alla tutina d'ordinanza bianca, la stessa di certi telefilm americani. Da bravo paziente voglio limitarmi a seguire lo standard dell'ospedale.
Un ultimo particolare. I capelli lunghi, ondulati, oramai scarmigliatissimi, sono fissati con un gel naturale, il sangue coagulato. Sul lato destro della testa ho un cerotto bianco abbastanza grande. Protegge i punti. Però inutilmente in quanto le ciocche arruffate lo hanno sollevato. Ora sembra un cappellino di quelli da posizionare lateralmente. Se avessi una garza a scendere sugli occhi potrei sembrare una vecchietta old stile con il velo prima della messa della domenica.
Nell'insieme l'aspetto finale è insolito.
Riassumendolo.
I capelli sono sparati come una criniera di leone. Il camice bianco dà un tocco sensuale profetico non senza essere ridicolo. Ai piedi indosso scarpe da maratoneta utilissime per coprire velocemente gli spostamenti avanti e in dietro per i corridoi, su e giù per i piani. Nell'insieme posso essere scambiato per un santone indiano hippy, un clown e non dimentichiamoci un paziente ricoverato.
Così munito riesco a entrare facilmente in sintonia con la gente incontrata. Ci si saluta, ci si incita a non mollare. Quando mi vedono da lontano puntano l'indice per la sorpresa. Poi parte un sorriso bonario. Come dire:
Ma chi è questo?
Superato l'imbarazzo iniziale, d'incanto si aprono misteriosi canali di comunicazione. Non è difficile. In questi momenti di fragilità, come naufraghi spossati, ci si attacca al primo scoglio disponibile senza fare storie. Stipati sulla stessa zattera si ascolta pazientemente l'altro per cercare insieme una soluzione. L'unico modo per mantenersi svegli, emotivamente reattivi. Spesso parte la battuta. Allora si rompe il ghiaccio, ci si alleggerisce dai pensieri cattivi. Per un attimo si dimentica di essere malati. Come si fosse al bar a assaporare un bicchierino insieme con ironia, sempre con sincerità.
In questo clima piacevole si riesce a far emergere quella componente infantile latente. Allora si spalancano recessi profondi solitamente congelati. Silenziata la paura, insieme si inventano nuove acrobazie per alleviare il peso degli acciacchi.
Nella camerata c'è un ragazzo caduto in motorino. È immobilizzato a causa di una serie di fratture compreso il bacino. In più ci sono due ciclisti, uno anziano e uno più giovane.
Anch'io vado in bici.
La cosa mi fa sentire a casa.
I ciclisti sono molto solidali, non disdegnano la balotta. Cosa più importante non si lamentano mai, cascasse il mondo, la terra, tutti giù per terra. Sempre pronti a condividere ogni cosa, da bravi combattenti feriti preferiscono buttarla in battuta.
Il vecchio ha un polmone forato. L'altro un trauma cranico più una serie di fratture alle costole.
Per la botta in testa si è svegliato in stato confusionale. Dopo vari giorni sta ancora nel limbo in attesa del Caronte di turno per essere traghettato di qua. È colpito dalla mia vitalità al punto di sentirlo dire in bolognese:
Soccia ma cosa gli danno da mangiare a quello.
Non ha tutti i torti. In effetti, vista l'entità del trauma, le risposte psicofisiche sono piuttosto anomale. Ho un ematoma extradurale della grandezza di circa otto centimetri per un uno e mezzo, al punto di essere giunto a un passo dall'operazione. Mi ha salvato l'essere tornato subito al mondo, aver risposto senza esitazioni alla neurochirurga raccontandole per filo e per segno dell'incidente. Per farla breve il quadro clinico fa a cazzotti con lo stato psicologico. I dati trasmessi dal cervello non coincidono con quelli comunicati dalla mente. Per i medici sono un problema.
Lo dobbiamo trattare da malato grave o no? Lo facciamo uscire o lo teniamo ancora?
Le tesi sono divergenti. Secondo il neurochirurgo la situazione non è più preoccupante. I proclami allarmanti pronunciati appena entrato, quando si paventava l'eventualità di un'operazione, sono solo un lontano ricordo.
Ora siamo diventati amici come con la sua assistente senese. Quando passa si fanno battute su battute. È diventato uno dei miei angeli custodi. Inoltre, avendomi accolto in stato d'incoscienza, conosce alcuni particolari preclusimi per sempre come una mamma col suo bebé appena nato. Un'apparente novità, per lui è solo una vecchia consuetudine.
Per tirare i fili del discorso, a causa del look, dell'inconsueto modo di fare sono riconosciuto da tutti. Anche perché saluto chiunque incontri con entusiasmo secondo un rituale appreso dal “presidente” del gruppo ciclistico “Il “triathlon enogastronomico”. Insieme abbiamo condiviso delle uscite memorabili.
Visto lo stato eccezionale al quale si è relegati, una terra di nessuno dove sono sospese le normali regole di convivenza, si cerca tutti di essere accoglienti, ben disposti a condividere situazioni di solito improponibili Qui le cose funzionano differentemente. Nessuno fa troppe domande. Soprattutto si prova a non giudicare.
In conclusione vorrei tornare sul giovane ciclista sbalzato via dalla bici per sottolineare la fortuna di aver incontrato in questi giorni dei soggetti eccezionali. Persone eroiche nella loro fragilità, capaci di trarre il meglio anche dalla sventura. Inventandosi una normalità straordinaria, non senza sacrifici.
Ci scambiamo piccoli aneddoti, l'insegnamento appreso in questi giorni. Alla fine ci sentiamo fratelli, pronti a ascoltare l'altro con ammirazione, umiltà, ripetendosi dentro:
Ha capito tutto della vita.
Dopo questo scambio non occorre più dire nulla. Basta uno sguardo, una calorosa stretta di mano per attivarsi emotivamente, per sentirsi vicini, solidali l'un l'altro.
Prima di uscire è venuto a salutarmi. Poi mi ha consegnato le piccole cose rimastegli come il testimone in una staffetta, visto che restavo ancora.


Il primo vicino di camera incontrato è un anziano venditore all'ingrosso. Non ha nulla in particolare. A causa dell'età, del caldo estivo, gli manca l'aria. Anche perché il cuore malandato ha cominciato a fare i capricci. Dopo aver lavorato per una vita intera senza sosta non vuole più saperne.
È un reperto archeologico di un'italietta quasi del tutto scomparsa. Quella del boom economico. La stessa immortalata da Fracchia, Fantozzi. Come il nostro ragioniere si rivolge ai conoscenti, ai presenti dando del voi. Con i suoi familiari segue una serie di formalità piccolo borghesi oggi improponibili.
A risultare ancor più curiosa è la segretaria. Una sorta di amica, aiutante factotum più giovane di lui di circa venti, trent'anni. È minuta, con gli occhiali rotondi, i capelli lunghi neri legati con una coda. Indossa un vestito a fantasia semplicissimo. Nei tempi morti fa l'insegnante per il resto lo aiuta in negozio.
Ha per lui un'adorazione smisurata.
Sotto sotto veste i panni dell'amante platonica.
Quando è entrata in camera e lo ha visto, ha superato di slancio il letto dove riposavo come non esistessi, puntando decisa verso la meta agognata.
Buongiorno commendatore...
Come sta?
Le si rivolge con un filo di voce tutto peperino.
Che vuole che le dica?
Non sono più quello di una volta.
Lo sa ci ha fatto spaventare tutti?
Eravamo in vacanza a Rimini. Appena saputo ci siamo precipitati.
Come ogni segretaria ha una cartellina ordinatissima. Dentro ci sono impilati sapientemente una quantità di fogli impressionante.
Guardi.
Le ho preso una serie di appuntamenti per quando uscirà. Ho prenotato i biglietti del treno per tornare a casa. Ho visto l'orario. L'ho segnato qui.
Gli fa vedere un foglio scritto a macchina.
In sua assenza ho fatto un salto in negozio per vedere se c'era qualcosa in sospeso.
Non si preoccupi, ho risolto tutto.
Piuttosto veda di guarire presto.
Con me è in buone mani.
Le voglio presentare il vicino, ci facciamo compagnia.
Rivolta verso di me con il viso abbassato.
Mi chiamo...
Piacere di conoscer...
Neanche il tempo di finire la frase è già tutta protesa verso il suo eroe.
Certo non si può parlare di una vera e propria relazione, tanto meno di una esibizione smaliziata di sensualità. Eppure il volto esprime un coacervo di emozioni incontenibili solitamente sublimate grazie a schemi comportamentali tradizionali non sempre sufficienti a mascherare quel desiderio intimo. Qualsiasi argomentazione diviene il pretesto per far emergere una vitalità sotterranea debordante. Basta un complimento del nostro ragioniere. Lei abbassa lo sguardo, socchiude gli occhi, accenna un sorriso sensuale dolcissimo senza mai fissare direttamente il principe azzurro. Almeno per non più di una frazione di secondo.
Tra i due non c'è contatto fisico né la possibilità di sfiorarsi.
La loro relazione è a distanza, sempre tra le righe, velata. Secondo cliché convenzionali. Potrebbe andarsene senza voltargli le spalle non prima di un aver accennato un inchino.
All'improvviso parte una melodia arabeggiante dal ritmo ossessivo. È la suoneria del cellulare del nostro Lorenz Fantozzi d'Arabia. Evoca qualche avventura africana nel deserto. Eppure è un brav'uomo, ancor più un onestissimo, infaticabile lavoratore. Se non avesse il vizio di lamentarsi in continuazione.
Ah, la mia generazione qui, i giovani d'oggi là...
Con questo atteggiamento non si attira amicizie. Si prende pure un cazziatone esagerato dal vicino di fronte in cerca di silenzio per il figlio sofferente. Rimaniamo di sasso, spiazzati per la violenza delle parole pronunciate. Qui tutto è possibile. Dal gesto umano più elevato al colpo basso. Si è in un un altro regime esistenziale. Poche storie, se no a letto senza cena.


Notturno in maggiore
Di giorno c'è sempre qualcosa da fare, qualcuno con cui ammazzare il tempo. A volte si può essere sorpresi da una visita imprevista. Invece la notte fa problema.
Sto in una camerata abbastanza grande, vi possono trovare posto otto persone. Di solito è il luogo prescelto per gli incidentati. Ma quando c'è il pienone vi sono sistemati chiunque, dal vecchietto russatore al moribondo rantolante. È un via vai continuo. Arrivano pazienti senza tregua. Tanti sventurati incappati nell'ospite inatteso venuto a bussare alla porta senza preavviso. Allora sono guai.
Tra un cambio di flebo, un intervento d'urgenza gli infermieri accendono le luci della sala. Non possono permettersi di sbagliare. Se non si è dotati di un sonno a prova di bomba o non si è imbottiti di farmaci, te lo puoi scordare di dormire. In più vista l'enorme quantità di acqua assunta durante il giorno per fluidificare il sangue vado continuamente al bagno. A tutte le ore. Allora per sottrarmi da tale tortura decido di alzarmi, indosso le scarpe e via diretti verso chissà quale improbabile avventura.
Alla prima sortita notturna pensavo di non incontrare nessuno, di avere il reparto a mia disposizione. Lontano da sguardi indiscreti mi divertivo a camminare in punta di piedi sulle mattonelle saltandoci sopra senza toccare le righe, come nel gioco della campana. A un certo punto, nella posizione con le gambe larghe, vedo nella penombra un volto osservarmi. Mi fermo. Dopo essermi reso un minimo presentabile mi faccio avanti incuriosito. Pian piano dal buio prende forma il corpo di una ragazza.
È giovane, avrà circa vent'anni.
È vestita di nero, compresi i capelli a caschetto.
Ha un volto emaciato, gli occhi bellissimi.
È intimorita.
Come fidarsi degli sconosciuti la notte, in questi corridoi desolati.
La prima parola pronunciata è il nome, la seconda che ha il ragazzo.
Calma baby, sto solo facendo public relation, vengo in pace.
Dopo poco si tranquillizza, l'elefante si trasforma in topolino, così possiamo cominciare a scherzare complicemente.
È arrivata fresca di giornata.
Si è sentita male all'improvviso.
Non sanno cosa l'è preso.
A guardarla bene è fragile, magra.
Nonostante abbia il ragazzo la coinvolgo nelle peregrinazioni notturne.
Facciamo passeggiate interminabili su e giù per il corridoio.
Tra una battuta e l'altra arriviamo ai confini estremi del reparto. Oltre non vuole andare intimorita dalle fatidiche colonne d'Ercole poste lì davanti.
Non insisto.
Stiamo bene per un paio di ore, poi le palpebre si fanno pesanti, il sonno incalzante.
L'accompagno all'entrata segreta del castello, le prendo la mano, la bacio sfiorandola leggermente. E a nanna di corsa che stasera è andata fin troppo di lusso.


Con il passare dei giorni le uscite notturne sono divenute sempre più frequenti, la ritirata sempre più mattutina, fino all'alba, quando c'è il cambio di turno delle sei. Allora torno mestamente nel letto disfatto in punta di piedi sperando di addormentarmi.
Dovrei provare a essere più disciplinato, condurre una vita regolare, andare a dormire presto. Vada per la vita regolare, ma la notte non me la toglie nessuno. Questioni di sopravvivenza.
In quella fascia temporale l'ospedale si trasforma. Sembra quasi di stare dentro la pancia angusta e semioscura di un vecchio sottomarino. Si sentono risuonare solo il ronzio a bassa frequenza delle ventole, il pulsare ritmico del misuratore del battito cardiaco, il rumore sordo della macchina per la respirazione.
Quando sono stanco mi rilasso sulle sedie della saletta video come fossi a teatro. Lentamente apro la tenda della finestra grande come un sipario. Pian piano si spalanca l'ala nuova dell'ospedale. Sul tetto si intravede la pista di atterraggio degli elicotteri avvolta nel buio. La fiancata è rischiarata solo dalle luci arancioni dei lampioni. Ogni tanto le grandi vetrate scure si accendono. Nel silenzio della notte entrano e escono velocemente personale in uniforme bianca.
Oramai conosco ogni angolo del reparto e non mi diverto più come all'inizio, perciò decido di spingermi negli altri livelli. Senza più remore m'imbarco nella navicella spaziale. Speranzoso premo tutti i bottoni dal primo all'ultimo piano per un nuovo viaggio.
Difficilmente trovo qualcosa d'interessante.
Solo l'atrio immerso in una penombra spettrale riesce ancora a trasmettere qualche brivido. Sembra una piazza metropolitana. Di giorno stra affollata, la notte lasciata alla mercé della speciale fauna locale. Attaccati alle sedie con le unghie oppure trascinandosi faticosamente resistono solo i tossici, qualche immigrato trasandato.
Non sono molti.
Se si attraversa spediti la sala, si arriva alla porta d'uscita. Oltre si dischiude il mondo sconosciuto. Nei romanzi di fantascienza si sarebbe parlato di nuovo mondo, del regno della libertà, del paradiso. Però appena si mette fuori il naso si ritrova pari pari la medesima fauna, lo stesso grigiore. Alla fine rimane solo di ritirarsi nelle proprie stanze. Non senza delusione.


Quando non c'è nessuno sto rintanato nella saletta d'attesa.
Verso la parete sinistra c'è un televisore col telecomando, un residuato catodico di un'altra epoca. Ha pure l'antenna. Anzi, due lunghe antenne a forma di V attaccate con lo scotch da pacchi. Il tutto resiste non so da quanto tempo anche se cominciano a manifestarsi i primi acciacchi. Gli stessi di un anziano smemorato costretto a vivere solo al presente.
Ho provato a studiare meticolosamente il telecomando per capire come sintonizzare i canali. Però mi sono dovuto rassegnare all'idea di non poterli fissare una volta per tutti. Ci hanno provato pure i raga più giovani. Anche loro senza risultati.
Così per vedere la tv bisogna pistolare sui tasti ogni santo giorno per organizzare il palinsesto. Dopo tanto lavoro mi trovo davanti il nulla assoluto spacciato senza ritegno da gente abbronzata sempre in tiro.
Oramai anche Mtv fa solo fiction.
L'unica chicca di questi giorni è un video dei Nirvana, Heart shaped box, tratto dall'album In Utero, l'ultimo della band. Mai così appropriato e di conforto nonostante l'abbiano sfornato a un orario impossibile, all'interno di classifiche nostalgichezzanti tutte acqua e sapone. Come diluire la cioccolata con la merda.
Comunque fa lo stesso. Una mezz'oretta di tempo è andata insieme ai cattivi pensieri. Ora posso spegnere la tv e riposare sulla sedia in attesa di dare libero sfogo alla fantasia.


La febbre del sabato sera
Oggi è sabato.
Agosto è cominciato da un po' sebbene quest'anno i bolognesi sembrino attaccati più che mai alla loro città.
Nel reparto siamo ricoverati solo in cinque.
Per la prima volta si avverte di essere in piena estate.
Eppure gli infermieri sono in fermento.
Si è fatta sera ed è sabato!
Se non avete ancora capito...
È sabato sera cristo santo!
Il giorno del giudizio e dell'ecatombe di intere generazioni di giovani secondo gli apocalittici resoconti dei telegiornali.
Si aspetta il pienone.
Qualcuno monta le luci strobo, altri testano le casse.
Per sicurezza si mette in frigo quantità industriali di flebo piene di birra, di superalcolici.
Non si sa mai.
Dietro il bancone d'entrata, gli infermieri vestiti di bianco sembrano gli inservienti dell'Overlook Hotel. Sono in frenetica attesa, pronti a parcheggiare gli ospiti in arrivo nelle lussuose stanze vuote.
Nell'aria si sente una strana eccitazione. Nessuno azzarda previsioni per non sfidare la sorte. Zitti e mosca.
Stasera ci sono il tosco e una ragazza pugliese. Entrambi sono simpaticissimi, sempre con la battuta pronta. Con loro è impossibile non lasciarsi andare in un vortice travolgente di battute irresistibili. Quando si comincia non ci si ferma più a meno non si accenda la fatidica lucina rossa con il suono ritmico di allarme. Allora si indossa velocemente l'elmetto, si prende l'occorrente necessario e via di corsa per cambiare una flebo, svuotare un pappagallo, portare acqua agli assetati. A volte si tratta solo di accogliere tra le braccia il malato insofferente per cantargli una ninna nanna prima del bacio della buonanotte.
Per gli infermieri fuori sede il reparto è tutto. Lì ci lavorano, fanno amicizia, trovano i partner.
In effetti c'è un giro continuo, un ricambio impressionante. Se non avessi deciso di rimanere single, nonostante poi giri intorno al miele come le api, avrei ottime chance. Stare in corsia da malato è come avere un poker in mano. In questo luogo senza regole tutti sono aperti, disponibili. Stringere nuove amicizie è all'ordine del giorno. Non si fa neanche lo sforzo di doverle cercare, sono loro a venire da te su un piatto d'argento, cosa si vuole di più.
Con i raga, tra una battuta e l'altra, ci si racconta le proprie storie più o meno contrassegnate dalle medesime tappe esistenziali. Come si partecipasse tutti a una interminabile corsa a ostacoli o nel peggiore dei casi a una dolorosa via crucis segnata dalle stesse stazioni. Una dietro l'altra in fila sino al Calvario.
Alla fine tutti trovano una soluzione, non senza aver prima fatto i conti con i propri problemi. Una volta superati, via di slancio verso la stazione successiva, senza mai sosta né pace.
Al termine degli studi si comincia con la ricerca del lavoro. Subito dopo segue il momento di pensare alla famiglia, di legarsi a una compagna o a un compagno. E perché no, di mettere al mondo un figlioccio. Così via per l'eternità. Tutto per inseguire un desiderio incontenibile indotto implicitamente dalla natura, dalla società per la sopravvivenza della specie.
Altre volte si parla della vocazione dell'infermiere.
In reparti come questo si vedono troppe cose per non rimanere segnati. Impossibile far finta di niente, continuare il solito tran tran come prima. In tale situazione è inevitabile instaurare un forte legame di amicizia, di solidarietà con gli altri infermieri spesso anche al di fuori del semplice orario di lavoro.
Una volta toccati dalla “vita” tornare tra i “normali” è un'impresa ardua. Come riuscire a condividere tali emozioni sperando di trovare anche comprensione. Fuori sussistono altre regole, altre priorità. Ci si può permettere il lusso di raccontarsela “bene”, di evitare lo sconveniente.
D'altra parte non tutti posseggono la stoffa per diventare infermieri. Relegati in questi ambienti limite, la vita di reparto alla lunga ti consuma, ti corrode dentro. Difficile resistervi per più di qualche anno se non si è dotati di una tempera speciale. In ogni caso occorre saper prendere le dovute precauzioni, essere particolarmente motivati per contrastare le frequenti sconfitte. In questo reparto particolare non ci si può certo permettere il lusso di abbattersi.
Eppure sento qualcosa di irrisolto, di paradossale riguardo la loro idea di altruismo. Nella vita quotidiana la distinzione tra donatore bisognoso, sano malato, bene male, dentro fuori di solito non è mai così netta. Tutto si confonde, si mescola. Né nero, né bianco. Solo un grigio incerto. Ma sono quisquilie. Come non solidarizzare con questo slancio umanitario.
Forza raga.
Forza e coraggio.
Dopo la valanga di battute, chiacchiere, confessioni, alla fine scende il silenzio.
Boh...
Stasera i giovani hanno deciso di fare i bravi, di andare a piedi sotto i portici, di suonare la chitarra in piazza, di bere in allegria.
Stasera calma piatta.
Che si fa?
Non c'è problema, ci pensa il tosco. Ha preparato la giardiniera e i fagioli per tutti. Inseguendo i richiami dello stomaco via di corsa dentro lo stanzino degli infermieri per gustare la succulenta pietanza, non senza incrociare le dita.
Scusate, avrei già mangiato alle sei e trenta e non avrei tutta 'sta fame.
Ma come dire di no a tanta grazia?
In questi giorni sono l'unico malato a avere attraversato quella soglia invalicabile. La porta d'accesso al sancta sanctorum degli infermieri. Di regola, quella è zona off limits, il luogo in cui si riposano, si sbracano, parlano liberamente senza filtri, si scambiano i numeri di telefono, si fa della chiacchiera.
Abituato a infilarmi dentro come fossi a casa, un giorno un infermiere sconosciuto mi ha intimato minacciosamente di fare retro marche. Questioni d'igiene! Come se lì dentro si fosse immunizzati da ogni contagio con la vita reale.
Vallo a capire...
Senza opporre resistenza ho chiesto umilmente scusa poi sono tornato indietro stupito per la docilità manifestata. Di solito la battutina salace la sparo sempre. Questa volta invece sembravo San Francesco redivivo pronto ad abbracciare l'umanità intera in tutte le sue strane forme non prima di aver intonato plenum gratiae un canto di lode al Signore in volgare antico.
Al di là di questo episodio, con gli infermieri ci si chiama solitamente per nome. Spesso dopo cena capita di ricevere sottobanco il caffè d'orzo, quello della macchinetta automatica.
Tanks my friends.
Certo nulla di paragonabile rispetto a quello all'anice della zietta. Ma vista la situazione è gustoso quanto la manna dal cielo.
Quando ci sono loro con il cibo è tutta un'altra storia. Rispetto al regime alimentare dei primi giorni, sono tornato a mangiare cose semplici, quelle a cui sono più abituato. Pasta in bianco, col pomodoro, mozzarella, patate lesse. Così la vita scorre meno grama.
Alla fine si è fatta notte fonda.
Per questo turno solo quattro ricoveri.
Alleluja.
Dopo aver bevuto copiosamente alla fontana di Lethe tutti a nanna felici e contenti.


Sezione under diciotto
La notte scorsa dopo un arresto forzato in autostrada un'intera famiglia di Torino è stata spazzata via da un auto impazzita. Centrata in pieno come un birillo da bowling.
L'apocalisse senza preavviso si è abbattuta come un fulmine a ciel sereno. Da allora è stato solo il caos.
Poteva andare peggio.
Almeno si è schivato l'irreparabile.
Lo stare a raccontarla è già un miracolo. Segno di una grazia ricevuta.
Su sei persone tre vengono ricoverate.
Il padre è stato ferito alla testa. Nulla di preoccupante.
La madre invece ha una vertebra incrinata, delle costole rotte. È immobilizzata a letto.
Anche Roby, il loro giovane figlio, è salvo per puro caso. Aveva deciso di allacciarsi le cinture posteriori quasi presagisse la sventura. Da allora è frastornato per la botta subita al capo. Però a preoccupare i medici è l'anca leggermente fratturata. Non potendo poggiare a terra il piede destro può spostarsi solo in sedia a rotelle.
Tanto basta per andare a trovare la mamma.
Quando vi riesce sfoga l'angoscia planandole sul grembo dolorante. Ma non basta a rallentare la caduta libera. Troppo fondo l'abisso spalancatosi per contenerlo. Impossibile placare lo sguardo atterrito.
Dovevano andare in vacanza in Umbria in un agriturismo vicino a Città di Castello, il paese natio di Alberto Burri. Il medico artista famoso per i sacchi di iuta sanguinanti come ferite ancora vive. Invece è successo il finimondo. L'imprevisto stava in agguato a loro insaputa. Come un'ombra silenziosa pronta a rovinare i loro progetti.
Ora, dopo il terremoto sono disorientati. Non riescono a spiegarsi il perché dell'accaduto.
Colpo di scena... Ecco la vita in tutta la sua nudità...
Cari signori dov'eravate? Non seguivate i giornali, la televisione? Non vedevate le calamità di tutti i giorni?
No, non siamo intoccabili. Lo avete appreso anche voi a vostre spese con un lutto interminabile da elaborare sempre non si voglia cacciare tutto nel rusco “facendo finta che tutto va bé”.
La dottoressa e l'infermiera di turno decidono di mettere il giovane accanto a me. Da quel momento nasce l'ala giovanile del reparto di medicina d'urgenza. Tutti gli under diciotto vengono schiaffati sistematicamente al mio fianco. Vista l'esperienza acquisita in questi giorni provo a farli sentire a casa per quanto possibile.
Oltre a Roby arriva Simone, un guidatore smaliziato di BMX. Pensava di appendersi con le mani sull'asta di un'altalena dopo un salto con la bici manco fosse Yuri Chechi. Invece si è accasciato a terra. Ora ha la schiena dolorante.
Direttamente dall'altra parte del globo viene Axel, un giovane argentino tunisino. È sotto tutela dei servizi sociali per aver mandato all'ospedale un coetaneo dopo una rissa. Come ogni tipo da GANG ha un codice comportamentale tutto suo. Se vi dovesse capitare di fissarlo negli occhi in un luogo pubblico cambiate direzione. Se no sono cavoli amari.
Mi cerca lui.
È un po' invadente, esibizionista. Però non più di tanti suoi coetanei. Vuole stare al centro dell'attenzione. Glielo lascio fare.
Mi comincia a raccontare la sua vita travagliata.
Dopo una valanga di storie piene di risse, macismo, droghe, gli dico:
Sei proprio uno stupido.
Mi aspetto un pugno in faccia, invece abbassa lo sguardo. Gongolando dice:
Me lo hanno detto in molti.
Diventiamo amici.
Il giorno seguente lanciata una base rap con il lettore mp3 si esibisce in mezzo ai letti a ritmo di break dance. Manco fossimo al Bronx.
Anche lui sta qua a causa di una fastidiosissima colica renale.
L'alchimia funziona.
I raga pensano sia meno vecchiotto.
La prima notte la passiamo imboscati a giocare a briscola. Tra di noi si aggrega pure il padre del ragazzo caduto in bici, un bolognese mio coetaneo simpatico, un po' fuori di testa. Tifa Bologna, va allo stadio. Veramente una brava persona.
Il giorno dopo, lo stesso letto è occupato da un omonimo rapper di Sasso Marconi. Si è intossicato accidentalmente con l'insetticida. Ha poco più di diciassette anni anche se sembra più grande. Sta piegato dal dolore a causa degli spasmi per l'intossicazione. Tra una flebo e l'altra va spesso in bagno per vomitare. Allora indosso i panni dell'infermiere di turno. Così gli tolgo la flebo per rimetterla quando torna a letto.
Se non lo vedo ricomparire faccio un salto in bagno. Spesso lo trovo accucciato vicino alla tazza stravolto. Però non si lamenta mai, sa come gestire queste situazioni. Ah questi “messaggeri della DOPA” di ultima generazione...
Per agevolare la convalescenza, i genitori gli regalano un cellulare con mille funzioni.
Un giorno provo a fargli leggere uno scritto. É un po' impacciato nella lettura. Molti termini gli risultano sconosciuti.
Dopo poche righe lasciamo perdere.
Eppure davanti al microfono si trasforma. Con le basi sotto a busso, la lingua scorre veloce. Le rime in slang sono celestiali, sincere, profonde. A ognuno il suo e complimenti per il singolo “Accorciare le distanze”.
Un pomeriggio, di ritorno dal solito giro di perlustrazione, gli chiedo come sta.
Non un granché risponde.
Allora gli cantileno:
Ma co-me? Stai ma-le nono-stante il cel-lu-la-re?
Scoppia in una risata. Si piega in due.
I genitori al suo fianco fanno gli gnorri.
Ero stato appena informato dell'entità del trauma, delle sue possibili conseguenze. Così manifestavo il malessere con un surplus di battute ironiche, un po' ciniche verso la vita, la leggerezza con cui la si affronta.


La caduta degli Dei
Nel profondo della notte hanno portato un signore sulla cinquantina caduto da cavallo. Trauma cranico anche lui.
Da quando si è svegliato tiene gli occhi spalancati e allampanati come certi protagonisti allucinati di alcuni film di Herzog.
Si domanda perso:
Dove sono?
Ma soprattutto:
Chi sono?
Senza più navigatore il corpo ha preso il sopravvento. Così i rumori intestini non incontrano più ostacoli.
In tutto questo tempo è stato amorevolmente assistito dalla premurosa compagna giapponese. Per accudire al meglio il cavaliere disarcionato ha pure disteso la tendina rosa interposta tra un letto e l'altro in modo da creare un piccolo angolo privato.
Durante la visita i dottori hanno provato a intavolare una conversazione per verificare la condizione del suo stato mentale.
Allora come andiamo?
Non ricevendo alcuna risposta:
Ei, c'è nessuno?
Dopo un po' il nostro malcapitato si gira verso quelle voci lontane come fosse apparsa una fatina in compagnia di qualche elfo.
Si, buonanotte...
Somministri questa flebo prima di pranzo.
All'improvviso si sente accennare qualcosa.
Dai ce la puoi fare...
Si ricorda di ieri?
È caduto da cavallo, ha battuto la testa.
Eh?
Come?
Nessun segnale confortante, sarà per la prossima volta.
Durante le visite viene a trovarlo una giovane coppia poi un signore distinto seguito con molta attenzione dai presenti. La situazione è particolarmente curiosa ma è ora di pranzo. Non c'è tempo di approfondire. L'affascinante giapponesina comincia a dare la pappa al suo bebè con i baffi.
Paaappa...
Paaappa...
Dopo ogni bocconcino passa amorevolmente il cucchiaio sulle labbra per portare via il cibo rimasto come farebbe ogni mamma con il suo cucciolo.
Anch'io sto provando a mangiare. Per una serie di circostanze sfavorevoli mi è toccata una fetta di rosbeaf imbevuta nella sua salsetta. In più ho smarrito il coltello di plastica così mi tocca arrangiarmi con la sola forchetta. Un lavoro certosino irto di difficoltà, un gioco come tanti per arrivare a sera.
Dopo alcuni colpetti ben assestati sulla superficie tenera:
Tac...
Parte un dente.
Lo scosto.
Come nulla fosse continuo l'opera di sezionamento.
Dopo un tempo improponibile finisco il meritato pasto.
Nel frattempo il vicino riesce pian piano a rimpossessarsi delle redini dei suoi pensieri, a indossare maschere più abitudinarie. In Calabria viene terminata l'autostrada del Sole, alcuni uomini sbarcano su Marte.
Sembra una persona gentile. Parla pure giapponese mescolato alle poche parole italiane pronunciate senza senso.
Non so perché, forse per l'inusuale performance culinaria il signore distinto venuto per la visita si avvicina, poi si presenta. Con lui c'è pure la giapponese. Da vicino è ancora più carina, simpatica, sebbene di una bellezza rigorosa, conforme ai canoni minimalisti dell'estetica orientale.
È il presidente di un fantomatico manipolo di cavallerizzi da poco tornati da un “pellegrinaggio” a Petra. Per contrastare la banalità dell'esistenza si sono proclamati cavalieri crociati in difesa del santo Graal dopo aver contaminato i testi biblici con il “Così parlò Zarhatustra” di Nietzsche.
Cercano la via stretta per la diviniformità spingendosi a altezze inarrivabili per i più. Le sensazioni raggiungibili a quelle quote sono inenarrabili. Pervasi da tanto spirito vitale i polmoni si dilatano quasi a scoppiare. Enorme l'eccitazione... fino a togliere il respiro. Allora si rimane sospesi in apnea con la bocca aperta tanta la forza sprigionata dentro.
Perché non viene a fare un giretto dalle nostre parti?
Sorry, cavalco solo bici. Come un pellegrino senza meta preferisco essere un testimone imparziale e defilato di questo tempo. La divisa da cavaliere non mi si addice proprio. Reputo più interessante stare in mezzo ai miei pari senza particolari ambizioni o idee strane per la testa magari per essere presente nel momento del bisogno quando possibile.
La nostra discussione si interrompe lì.
Ci guardiamo con rispetto, poi ci si saluta silenziosamente.


Go out
Sono fuori da alcuni giorni.
Di punto in bianco mi trovo abbandonato a me stesso, solo di fronte a una burocrazia sanitaria incapace di fornire qualsiasi tipo di risposte.
La compagna del ciclista anziano mi aveva profeticamente avvertito.
Stai attento quando esci, dopo è il caos.
Ma non è tutto.
Dopo essermi abituato alla nuda realtà dell'ospedale, il vitalismo sornione degli esseri umani “sani” mi è particolarmente intollerabile.
Vi prego riprendetemi dentro!
Tenetemi ricoverato ancora un po', si stava meno male.
Caro Ian, rivolgo un ultimo pensiero a te.
Non immaginavo di condividere oltre la musica, il malessere esistenziale, anche la possibilità di avere crisi epilettiche. Sebbene con “solo” il dieci per cento di probabilità entro questo anno.
Una su dieci.
Mmh...
Sta storia non mi suona nuova.
Cosa ne pensi?
È il caso di rivedermi Control?


Back in U.S.S.R.
Dopo quindici giorni sono tornato in ospedale per un'ultima TAC.
È venerdì pomeriggio, quasi tutti hanno abbandonato l'edificio per le ultime vacanze estive.
L'enorme fabbricato è deserto.
A essere rimasti sono i soliti tossici seduti nel luogo di sempre in attesa di un ulteriore agognato viaggio. Per loro il tempo sembra essersi annullato in un eterno presente vuoto. Dopo aver toccato il cielo con un dito resta la croce quotidiana di strisciare come larve sul pavimento nero plastificato invaso di cicche, carte, gomme da masticare e altre indecifrabili schifezze.
Checché se ne dica è la storia di tutti. Solo sono più indifesi in quanto incapaci di frenare il proprio eccesso compulsivo con delle maschere adeguate.
Il bar del pianoterra è aperto. Sembra un'oasi nel deserto.
I sopravvissuti bivaccano là.
L'“atrio” abbandonato a se stesso è alla mercé dei soliti energumeni stazionari per nulla rassicuranti.
Dopo un lungo girovagare per i corridoi semibui trovo la sala della TAC.
Davanti la porta del reparto incontro un medico di “vecchia” conoscenza. Lo stesso che pretendeva la strada al pronto soccorso sebbene fossi il malato di turno per di più accompagnato da una zelante infermiera. Per lui ero solo uno straniero di passaggio nel suo regno e dovevo pagare dazio.
Non essendoci altra anima viva gli chiedo cosa fare.
È il caso di suonare?
Ma no, si accomodi.
Mi mostra la sala d'aspetto pulita, accogliente.
Attenda lì il proprio turno con pazienza.
Comunque ci tiene a precisare di essere fuori reparto.
Faccio cenno di saperlo.
Di solito le indicazioni fornite da persone fuori reparto sono al novanta per cento fuorvianti in quanto, sebbene all'interno delle corsie tutto funzioni alla meraviglia, tra i differenti piani non esiste praticamente comunicazione. Così a affermarsi è il rumore di fondo, il fraintendimento. Con questi presupposti si procede solo per conoscenze, spesso secondo un principio d'autorità.
Visti i precedenti preferisco seguire l'istinto.
Suono il campanello.
Nel giro di pochi secondi si aprono le porte del paradiso. Sono in sala TAC. Anche se a fine esame non riceva la cosa più importante, l'esito, vista la penuria degli addetti ai lavori quasi tutti in vacanza.
Vabbè...
Armato di pazienza mi affido alla speranza. Tanto cosa potrà mai accadere?
Ho ancora tempo, così decido di passare al quarto piano per un saluto. Per l'occasione ho pure portato una boccia di vino. Quello buono preso dal contadino. Non si sa mai.
Salgo le scale a piedi.
Arrivato a destinazione mi infilo nella porta aperta.
Sono da poco le cinque, l'orario delle visite. Davanti mi si spalancano gli scenari di tante battaglie. Però mi sento fuori luogo, frastornato come se non riconoscessi più quegli ambienti.
Provo a fare mente locale, a riattivare le antiche mappe.
Ogni sforzo sembra inutile. I ricordi emersi fanno a cazzotti con la visione davanti.
Sarà per la desolazione estiva, per la presenza di nuovi infermieri, però lo stare dentro o fuori fa la differenza. Tutto sembra cambiato a partire da sé stessi. Quindici giorni sono stati sufficienti per sradicarmi completamente.
Immerso in questi pensieri intravedo una ragazza bionda con gli occhi azzurri. Parla con un accento spagnolo. Ci siamo già conosciuti di sfuggita. Non mi vede. È troppo impegnata a portare avanti il lavoro.
Proseguo il cammino.
Di fianco ci sono le camerate, quelle femminili, poi quelle maschili.
La prima stanza di sinistra è dove sono stato ricoverato, nel letto ventisei.
Non oso entrare...
Non voglio contaminare i ricordi. Là devono rimanere solo i vecchi compagni di reparto.
Poi mi imbatto nell'addetta al trasporto dei malati tra i vari reparti. Quella solita risolvere in silenzio ogni piccola anomalia magari spegnendo le luci quando non servivano.
Mi riconosce.
Ci salutiamo calorosamente.
Come stai.
Penso bene anche se non ne sono sicuro.
La neurochirurga senese è dovuta correre in sala operatoria per l'ennesima battaglia così non mi ha visitato.
Si ferma per un attimo, mi scruta, poi mi dice:
Ma va là, stai bene, si vede lontano un miglio.
Dopo qualche battuta le chiedo di salutare la truppa, poi ci si separa con un sorriso affettuoso.

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